sabato 3 luglio 2010

Giappone: un modello da perseguire



Il Giappone rappresenta il modello vincente per l'Italia.
E' la più grande economia asiatica, ed è la seconda nel mondo in termini di Pil Nominale. Sono due Paesi piuttosto simili, per la conformazione geografica (scarso controllo idrico, prevalenza di terreno collinare, scarse aree pianeggianti e fertili) e per la dotazione di risorse sia energetiche (non è presente, sia in Italia che in Giappone il coke per alimentare le industrie ed inoltre è molto scarso il petrolio) sia naturali (lo staple product più presente in entrambi i Paesi è la seta che viene trasformata ed alimenta il settore manifatturiero e tessile).

Sono inoltre molto simili per i processi economici intrapresi dalla Prima Rivoluzione Industriale fino al secondo Dopoguerra: entrambi arretrati, con una popolazione prevalentemente analfabeta ed occupata per circa il 70% nel settore agricolo, sottoccupazione, impiego inefficiente della manodopera, scarsi investimenti nella formazione e nell'istruzione, l'organizzazione della società e della produzione è di tipo padronale (mezzadrìa) o feudale, entrambe economie di trasformazione, dipendenti dalle esportazioni di seta grezza (o del prodotto tessile che viene lavorato per poi essere finito in altri mercati) per avere un avanzo con cui acquistare le materie prime e le fonti energetiche per il timido tessuto industriale nascente intorno agli anni '20 del secolo scorso.

Dal dopoguerra però le cose cambiano improvvisamente, ed i due paesi divergono sttrutturalmente.
L'Italia preferisce seguire il modello americano della Grande Impresa, dell'American Manifacturing System (produzione in serie, economie di scala, standardizzazione dei componenti, macchinari avanzati), del Labour Saving, quando in Italia il fattore scarso era quello delle risorse e non della manodopera (che era peraltro occupata inefficientemente e la Prima Globalizzazione ha permesso di reimpiegarla efficientemente nel settore agricolo e nel settore manifatturiero e di avere una crescita dei redditi in Italia e in America di soddisfarne la domanda e di abbatterne il costo), quando il tessuto industriale era ancora in via di sviluppo e di tipo familiare in cui si prediligevano le PMI e dove ancora la formazione tecnico-industriale era sottovalutata e non godeva degli investimenti necessari per formare una classe operaia ed ingegneristica avanzata e capace di competere sui mercati internazionali.

Il Giappone invece si è gettato subito sulle tecnologie della Terza Rivoluzione Industriale, ha premiato lo sviluppo tecnologico, ha investito in istruzione e formazione scientifica, ha rimosso il sistema di caste e favoristismi creando un meccanismo meritocratico capace di avere una classe dirigente sempre nuova e sempre intraprendente e competente nel realizzare sistemi produttivi nuovi ed efficienti (come il Toyota Production System e il modello Keyretsu che ha permesso di collegare alla perfezione le Grandi Imprese e le PMI attraverso il principio di cooperazione interna in cui le Grandi Imprese acquisiscono la componentistica da sub-imprese direttamente collegate alla prima ma dove anch'esse riescono ad avere altre sub-imprese capaci di produrre la componentistica per le seconde,ecc..ecc..).

Allora perché l'Italia non è riuscita a seguire il Modello Giapponese tanto simile e ripetibile nella nostra economia?E' una domanda estremamente difficile a cui dovrebbero rispondere i governi della Democrazia Cristiana e gli imprenditori italiani che non hanno avuto il coraggio di intraprendere processi di innovazione tecnologica del fattore strutturale necessaria ad un miglioramento qualitativo del prodotto, ad una crescita della produttività e del numero di prodotti offerti, che non hanno voluto rompere i legami clientelari e familiari a favore di un sistema meritocratico che apriva le porte alla giovane classe dirigente, che ha preferito utilizzare gli utili generati per l'acquisto di proprietà e non li ha reinvestiti in azienda. Sono queste le domande a cui dobbiamo rispondere per comprendere anche la crisi dell'economia italiana che ormai ci danneggia a livello internazionale dagli anni '80, e sono queste le domande che meritano una riposta da una vecchia politica capace solo di favorire gli interessi di pochi ambienti a scapito della maggioranza della popolazione, che non accede alla suddivisione della ricchezza nazionale e che non ha speranze di intraprendere percorsi e processi di miglioramento del proprio tenore di vita.

La responsabilità è soprattutto dei governi che si sono avvicendati negli ultimi 15 anni, anche di una ottusità del gruppo Ds-Margherita che ha preferito a logiche di progresso e di crescita economica indicate da Prodi logiche meramente partitocratiche, facendo cadere Prodi I e Prodi II per ben 2 volte. La responsabilità del collasso economico è indirizzabile ancor più ai governi di centro-destra che hanno distrutto la concorrenza capitalistica nella misura in cui stanno costantemente diminuendo gli investimenti in istruzione e formazione, non favoriscono attraverso incentivi la ricerca e lo sviluppo pubblico e privato, non riescono a creare circuiti finanziari più accessibili per le imprese e soprattutto non sono capaci e nemmeno interessati a porre una tassazione per i trasferimenti fra banche e limitare i tassi d'interesse.

Le soluzioni a queste problematiche sono ben esposte nel Programma Politico predisposto da Italia dei Valori nel punto 2 "Economia e Finanza", soprattutto quando si esplica la necessità di diminuire il carico fiscale alle imprese, di rilanciare la crescita della produttività con incentivi alla rottamazione e con la detassazione degli investimenti finalizzati alla ricerca (ma direi anche per formazione tecnico-applicata nelle scuole superiori ed investire soprattutto nel fornire le università di Ignegneria-applicata di laboratori all'avanguardia ed aumentare le ore pratiche), processi di specializzazione , ridurre l'Irap (Imposta Regionale Attività Produttive) alle imprese che investono in innovazione tecnologica e risparmo energetico e per ultimo, ma non per importanza, favorire processi di aggregazione e cooperazione fra le imprese, in modo tale da organizzarle anche secondo un Modello di Capitalismo Renano o Giapponese.
Già con queste piccole modifiche strutturali l'Italia potrebbe avviarsi verso una crescita del Pil Reale e del Pil Pro-Capite migliore rispetto agli anni precedenti la Crisi.

Marchesi Andrea

1 commento:

  1. Mi pare un'analisi puntuale e obiettiva che non necessita di commenti. Se guardiamo alla nostra situazione locale ed in particolare al settore orafo emerge con chiarezza come gli orafi aretini che hanno sempre prodotto in gran parte oreficeia di bassa qualità (catename) e non hanno investito sull'innovazione e la crescita qualitativa si sono trovati in brache di tela quando tali prodotti si trovavano sul mercato a prezzi molto inferiori per la concorrenza dei paese emergenti.

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